Sembrerà banale ma avrei preferito avere altro di cui parlare in questo momento. Ho un quintale di arretrati, il viaggio a Herzo, l’incontro con Futura 2000, la cinquantesima di Scarpe.pod e invece mi tocca raccontare CK, il DJ preferito del tuo DJ preferito.
Una decina di giorni fa per qualche ora è circolata la notizia della sua morte, spinta dai soliti bidoni della spazzatura tipo TMZ, per fortuna subito smentita da tanti amici e personalità della scena musicale newyorkese. Qualche ora fa è arrivato invece il comunicato sul suo profilo ufficiale, lasciando poco spazio a dubbi e speranze.
Passato un attimo di sbigottimento il mio primo pensiero è andato al commesso del negozietto in cui passavo i pomeriggi l’anno prima di iniziare il Liceo. Il posto era uno di quei classici negozi di provincia - skateshop con roba per i graffiti e dieci altre cose mischiate – e lui era un ragazzo che si fumava mille canne, ignorava i clienti e giocava per ore a B-Boy e And1 Mixtape. Una volta, mi sa alla fine del 2006 o l’inizio del 2007, vedendo che rompevo le palle con le scarpe mi masterizzò un dvd con Just for Kicks sottotitolato (male) in italiano, praticamente il mio momento del contatto con la nave madre. Un po’ di quelle cose le avevo già lette online, ma vedere qualcuno parlare di scarpe come se fosse una cosa normale mi ha fatto tutto un altro effetto.
Lì in mezzo c’era anche Clark Kent. Prima di capire cosa fosse per la musica, per la cultura, per tutto il resto, per me Clark è stato un simbolo di come andava vissuta questa cosa delle sneakers. L’anno dopo parlando di lui con una delle tante persone a cui rompevo le palle a Milano venni a sapere che l’anno prima era venuto a mettere i dischi ad un evento per i 25 anni di Air Force I; l’avevo perso di poco ma sono sicuro non ci sarebbe stato modo di convincere mia madre a mandare il me quattordicenne in un posto del genere ma in ogni caso fu così che scoprii quel luogo mistico chiamato Posteria, questa però è un’altra storia.
Mi dispiace molto perché so già che finirò per ripetermi quando scriverò di Futura 2000, ma ognuna delle poche volte in cui c’è stata la possibilità di entrare in contatto con Clark Kent ho avuto la sensazione di avere davanti un OG vero, non semplicemente un originale che ha giocato fin dall’inizio ma un vero originatore, uno che ancora prima era al tavolo per scrivere le regole.
Un paio d’anni dopo provai senza successo ad organizzarmi a Zurigo sapendo che sarebbe stato ospite di Sneakerness. Rosicai ancora di più vedendo che aveva addirittura creato il Bespoke di un’Air Force 1 per l’evento, ma resta una delle storie più belle che mi sono fatto raccontare da Sergio Muster, uno dei fondatori dell’evento, quando abbiamo stretto amicizia.
Ricordo come se fosse ieri quando il Maestro Prola mi mostrò il biglietto “To Albert, GOD Bless” che si era fatto firmare quando l’aveva incontrato a NYC e conservava insieme alle sue Air Max 1 “112”. Ricordo anche la delusione che provai a Colonia quando un ragazzino mi rubò da sotto il naso due delle Air Force 1 “Five Boroughs” perché temporeggiai troppo per paura di non avere spazio per portarle a casa sane e salve. Un anno visitai gli uffici e la fabbrica di Diadora per conto di Unotre e Complex aveva mandato Joe La Puma, a cena gli chiesi soltanto due cose: “How’s to be around Clark?” e “When’s Vic Cruz coming back from the injury”?
Nel 2019 Clark Kent sarebbe dovuto venire a Ginnika. Quella fu un’edizione strana, slittata a settembre dal solito slot tra fine maggio e inizio giugno, per di più in mezzo a un periodo molto pieno per me con lo Special Sneaker Club. Per un po’ di tempo dubitai se dare conferma della mia presenza, per covincermi il Presidente Sibaldi decise di spoilerarmi gli ospiti dicendomi che oltre a Clark quell’anno avrebbero portato Jeremy Fish, Boogie e DJ Spinna. Tramite l’organizzazione di Ginnika e il suo manager riuscii a passargli qualche domanda per l’intervista che avevo chiesto di poter fare, terrorizzato da una possibile brutta figura. Mi rispose direttamente su Instagram, finimmo per scambiare un paio di battute riguardo le Ellesse Piazza che Packer aveva da poco fatto uscire, parlammo di Lotto e Sergio Tacchini. Poi per una serie di motivi Clark Kent quell’anno non venne a Roma, ma il gennaio successivo incontrai Mike Packer e gli parlai di quello scambio: senza esitare un secondo anche lui si aggiunse alla lista di persone che negli anni mi parlarono di Clark Kent come di una persona buona, disponibile, un monumento di Knowledge da preservare.
Qualche anno dopo, a Sneakerness, mi sono seduto con Denis Dekovic per intervistarlo e a microfoni spenti gli ho chiesto come fosse Clark Kent, quale fosse il loro rapporto. Se anche un designer capace di cambiare l’industria si illumina parlando di un DJ con troppe scarpe non ho bisogno di sapere nient’altro.
In tutto questo non ho ancora detto una parola sulla musica, su quello che fino a prova contraria era il suo mestiere e la sua vocazione. Ogni mia parola a riguardo sarebbe inutile: se sei stato il DJ in tour di Notorious BIG e poi uno dei suoi produttori, quello che ha convinto Jay Z a puntare sulla musica e riportato sui palchi Rakim dopo il ritiro, non è certo Marco di Busto Arsizio a dover aggiungere qualcosa.
Ho consumato i dischi, gli interventi per Complex, le puntate di Quickstrike. Cazzo, mentre la gente ancora fotografava gli outfit appoggiati per terra Clark e Russ Bengtson già pensavano che un podcast dedicato alle sneakers potesse avere senvo, non c’è un modo credibile in cui io possa sminuire l’influenza che tutte queste cose hanno avuto su di me.
Clark Kent odiava essere definito un collezionista. Era anche il titolo di una sua copertina del Magazine di Sole Collector che provai ad ingrandire con una lente per leggere le etichette sui box in mezzo a cui era seduto. Fino all’ultimo ha spiegato a tutti con i fatti come fosse la persona e l’attitudine a contare più della scarpa o del prezzo; se messa con coerenza anche la GR più rivista è perfetta. Se poi devi ricordare a tutti chi comanda, “stunt on “em”. Un giorno è una Jordan 1 che i puristi inventati considerano da ragazzini o qualche Force basica da comprare dieci per volta, il giorno dopo sali sul palco del ComplexCon con una “What the Dunk” montata su un’Air Force, US 13.
Non mi sarei aspettato di finire per scrivere di Clark Kent stasera, con i Knicks in sottofondo e Gara 1 delle World Series che sta per iniziare. Parlare al passato delle persone fa schifo, ma se un’eredità esiste il compito di esporla è sempre di chi rimane. Ho parlato altre volte dei miei “maestri inconsapevoli”, Clark Kent è uno di loro.
And so Rest in Peace to your favorite DJ’s favorite DJ, the sneaker king of NYC, the master of 255 Elizabeth St., the godfather of 112, All time Fresh, often imitated never duplicated, Brooklyns Own.
GOD’s favorite DJ, Clark Kent, Rodolfo Franklin.