É passato un paio di mesi da quando mi sono seduto al cinema (due volte in una settimana) per vedermi The Iron Claw, il film con cui Sean Durkin ha voluto provare a raccontare la tragedia della famiglia Von Erich. Salvo rarissimi casi Pro Wrestling e cinema non si mischiano benissimo, per questo nonostante gli ottimi feedback della prima non mi sono posto grandi aspettative tenendomi soltanto la speranza di non rimanere deluso.
Da appassionato e “studioso” quella dei Von Erich è una storia a cui sono molto affezionato e di cui ho letto molto, una tragedia familiare che a suo modo racconta il sud degli Stati Uniti negli anni ’70 e ’80 e gli enormi cambiamenti subiti in quei due decenni dall’industria del pro wrestling, che avrebbero gettato le basi per l’enorme popolarità globale degli ultimi anni ’80 e di tutti i ’90.
Ora, come il mulino di Ritorno al Futuro questo è il punto di non ritorno in cui fermarsi prima di leggersi una roba poco interessante. Capisco che l’argomento potrebbe essere ostico, io proverò a non scendere troppo in tecnicismi ma non posso promettere nulla.
⚠️ Spoiler alert ⚠️ – se proprio vuoi proseguire, forse è meglio aver visto il film.
Il film è bello. Non mi permetto di dare giudizi cinematografici che non mi spettano, io in questa situazione sono un po’ come il lettore che va a vedere un film per rompere le palle su come qualcuno ha voluto raccontare una storia tratta da un libro che lui, e soltanto lui, ha capito. Penso che il film sia bello proprio perché potrebbe catturare l’interesse anche di chi non ha il contesto totale della storia, perché ovviamente mancano dei pezzi ma i tagli sono messi nel posto giusto e, in particolare, perché se entri in sala volendo fare la caccia all’errore ad un certo punto ti fai prendere da un bel racconto e ti dimentichi della tua missione da cagacazzi.
Molto belli i costumi, la colonna sonora, location e scenografie. Incredibile la coreografia e il coordinamento delle scene lottate, affidate a Chavito Guerrero (che ha ricoperto lo stesso ruolo per GLOW, che mi sa è su Netflix. Ottime alcune scelte a livello di casting (Jeremy Allen White as Kerry Von Erich mi è piaciuto molto e ho scoperto che Zach Efron è un attore vero e non si è fermato ad High School Musical), mentre altre si sono rivelate abbastanza tragiche (i due minuti in cui appare Ric Flair sono tremendi e vedendo il resto sono sicuro si potesse fare di meglio).
Nell’arco narrativo coperto dal film ci sono ovviamente alcuni buchi necessari per alleggerire la durata del film, che comunque supera le due ore, aspetto che ha reso necessario compattare interi anni in passaggi che sembrano raccontare poche settimane, così come alcuni errori a livello cronologico che non inficiano però il “senso” del racconto e interessano solo ai nerd come me.
Non voglio difendere le scelte fatte in fase di sceneggiatura, ma le capisco. La storia di Jack, il primo figlio, viene soltanto sfiorata ma mi rendo conto che raccontare la morte di un bambino di sette anni sarebbe servita soltanto per alimentare la tragedia che già così pervade il film. Un aspetto diverso è invece quello che riguarda Lance Von Erich, il “fratello finto” introdotto a metà anni ’80 che simboleggia al meglio il declino della famiglia – questo è un espediente che avrebbe aiutato ad approfondire alcune dinamiche dei “territori” di metà anni ’80, ma è naturale che sarebbe stato abbastanza inutile scendere così tanto nel dettaglio cercando di conquistare un pubblico che non è detto fosse interessato in partenza all’argomento. Un peccato aver tagliato il cameo di Maxwell Jacob Friedman che l’ha interpretato, sarei stato curioso di vederlo all’opera.
L’unico vero difetto che ho riscontrato è una grande confusione nel trattamento del confine tra realtà e finzione, problema molto comune nei racconti riguardo il wrestling. Nella prima parte del film lo “sguardo dietro le quinte” viene utilizzato molto bene per raccontare le difficoltà affrontate da Kevin Von Erich al debutto e il confronto con il fratello David, un talento naturale. Proseguendo, forse per enfatizzare la tragedia e distrarre dall’assenza di alcuni elementi della storia una separazione netta viene meno, lasciando intendere come elementi parte della narrativa nel ring abbiano influenzato umori e vite dei personaggi reali raccontati nel film.
Questo è sempre un discorso complesso, come in effetti è complesso pensare di raccontare un racconto senza fare casini, motivo per il quale mi guardo bene dal sostituirmi a scrittori, sceneggiatori o registi che ci hanno provato nel corso degli anni. Un’alternativa, per esempio, è virare su un racconto puro e inalterato sullo stile di “The Wrestler” di Arnofsky, metodo efficace che ho però la sensazione non si sarebbe adattato bene a un’epopea familiare come quella dei Von Erich. Durkin ha fatto del suo meglio e sono convinto che il risultato non ne risenta, soprattutto per chi è meno avvezzo a determinate dinamiche. Ancora una volta mi tocca fare uno sforzo e ricordarmi che non sono io il target ideale di certe cose.
Tutto questo ragionamento sui modi e i tempi del racconto è scaturito in gran parte dal fatto che da qualche settimana è partita la quinta stagione di Dark Side of the Ring, splendida creatura di Evan Husney diretta da Jason Eisener e pubblicata negli Stati Uniti per Vice Media.
Qui sopra c’è un bel video di Cultaholic sull’argomento. QUI trovate la puntata di Dark Side of the Ring sui Von Erich, mentre QUESTO è il link al video sulla piattaforma ufficiale di Vice, nel caso vogliate prendervi la briga di iscrivervi con una VPN. Qui sotto, invece, un approfondimento audio pubblicato quest’anno dal team di DSotR insieme al sopravvissuto Kevin Von Erich.
DSotR ha ridefinito in pochi anni il modo di scrivere e realizzare documentari dedicati al wrestling, raccontando in modo analitico ma mai morboso situazioni spesso complesse e celate nelle pieghe dei racconti ufficiali. Proprio DSotR nella sua prima serie ha realizzato quello che ritengo essere il miglior racconto della saga dei Von Erich, inquadrandone tanto l’importantissimo ruolo nella Golden Age del wrestling quanto le ombre e le contraddizioni, con la pietà che una famiglia distrutta merita ma senza inutili piaggerie. Capire come il rapporto con un padre-padrone, la celebrità istantanea, la depressione, la normalità dell’abuso di steroidi o antidolorifici e la fine del collaudato meccanismo dei territori abbiano influito sull’ascesa e la fine della dinastia Von Erich aiuta a capire tutto, a inquadrare situazioni che sembrano – davvero, questa volta – finzione cinematografica.
Nel caso in cui aveste voglia di recuperarvi l’episodio ve lo consiglio, sono convinto che un quadro completo aiuti anche ad apprezzare meglio il film.
Il documentario “moderno” è, almeno dal mio punto di vista, il miglior modo di raccontare il wrestling oggi. Per un secolo l’industria si è trincerata saldamente dietro il concetto di kayfabe, il sottile velo che separa vita e racconto, con il terrore da maghi d’altri tempi che svelare i propri trucchi avrebbe rotto il rapporto con il pubblico, finendo però per creare dietro le quinte un ambiente buio in cui troppo è connesso e le persone sono condannate a vita a vestire i panni del proprio personaggio.
Il miglior modo per capire la portata e la celebrità dei Von Erichs nel Texas di inizio anni ‘80 è recuperare uno qualunque dei match organizzati dalla WCCW nei due anni di feud con i Fabulous Freebirds. In quello qui sopra - dell’agosto 983 - Michael Hayes, Buddy Roberts e Terry Gordy archiviano i Lynyrd Skynyrd per avvicinarsi al ring avvolti nelle Dixie Flags sulle note di Georgia on my Mind, seguiti da un boato che scuote il Dallas Sportatorium all’arrivo dei Von Erichs con Tom Sawyer dei Rush in sottofondo. "This isnt a feud between Texas and Georgia. This is a feud between decency and filth."
Come in tutti i racconti sceneggiati anche nel wrestling la sospensione dell’incredulità è fondamentale per poter apprezzare il prodotto, ma proprio perché anche il wrestling è un racconto l’immagine totale non rompe l’incantesimo – sarebbe difficile apprezzare a pieno un buono spettacolo o un grande film senza poter parlare di regia, tempi e coreografie.
Alla fine degli anni ’90 Beyond the Mat di Barry Blaustein ha spiegato a molti quali fossero i meccanismi che consistevano all’industria di funzionare, con un atteggiamento da investigatori pronti a smascherare i grandi bugiardi reso necessario da un ambiente inutilmente chiuso e arroccato che ancora provava a nascondersi dietro una foglia di fico.
Proprio il wrestling anni ’90 si è alimentato più che mai di un mix spesso sgradevole di realtà e finzione, violenza inutile, trash e crash tv ai limiti dell’accettabile. Tutti elementi che dall’interno avevano stracciato quel velo di pudicizia tenuto sollevato per decenni.
Oggi i social media e la cross-medialità dei personaggi coinvolti hanno reso inutile nascondersi. È finalmente dello spettatore la responsabilità di non andare a guardare nel cappello del mago se vuole godersi lo spettacolo oppure imparare ad apprezzare una performance per ciò che è.
Quando prima parlavo di come la difesa del kayfabe abbia generato un “ambiente in cui troppo è concesso” mi riferivo a come decenni di clausura abbiano da un lato offerto a molte figure tremende un nascondiglio da sé stesse e dalle proprie responsabilità e, dall’altro, inutilmente alimentato leggende e miti che hanno finito per mettere in cattiva luce anche gli aspetti sani dell’industria.
Dark Side of the Ring si inserisce proprio in questo contesto, trattando alla pari argomenti terribili e dolorosi (nessuno meglio di loro ha raccontato la tragedia di Owen Hart o gli ultimi giorni di Chris Benoit, per esempio) o fatti di ring (lo Screwjob del 1997, Brawl for All o Bash at the Beach 2000) con dignità, obiettività, completezza e grande capacità di cronaca, aprendo così una necessaria valvola di sfogo che consente di conoscere meglio cos’è successo ed eliminare una pesante cappa di morbosità e racconti inutili, lasciando spazio alla performance di personaggi a cui è richiesto contemporaneamente di essere attori, atleti, circensi, stuntmen e custodi della sicurezza di chi va in scena con loro.
Tutto questo soltanto per dire che è ovvio che l’approccio al wrestling di un bambino sia e debba essere diverso da quello di un trentenne. Da un certo punto di vista conoscerne i meccanismi e anche non negare il torbido aiutano ad alleggerire il prodotto ed apprezzarlo per ciò che è: uno spettacolo.