Shaolin, scarpe costose e sneakerhead delusi
Un paio di riflessioni lunghe sulla questione Dunk “Wu-Tang”
⊛ Pare il post sia troppo lungo per essere letto nella mail, quindi pigiate il bottone e leggete dall’editor come le persone sane di mente. Grazie. ⊛
È passata una decina di giorni da quando gli amici di Nike hanno deciso di rompere Instagram pubblicando un teaser che lascia intendere (occhiolino, occhiolino) un possibile ritorno delle Nike Dunk Hi “Wu-Tang”, unicorno del 1999 basato sulla “Iowa/Goldenrod” dello stesso anno, realizzato da Nike come materiale promozionale per il gruppo newyorkese.
In questa decina di giorni penso di averne discusso con chiunque: amici, colleghi, gente a caso che voleva capire quale fosse la mia opinione. Ne abbiamo parlato anche al Pod, finendo per voler isolare l’argomento in una puntata speciale che trovate già online come “Scarpe.pod S02-E21½ - Nostalgia, nostalgia canaglia.”, in cui con Niccolò e Andrea ho fatto un po’ di recap sulla situazione e abbiamo provato ad affrontare la cosa con lucidità.
Prima di entrare nel merito della questione, breve Bignami di scarpe anni ’00: dimenticate tutto ciò che si basa sul vissuto degli ultimi dieci/quindici anni se bisogna analizzare o giudicare uno special project prodotto tra il 1998 e il 2003; stiamo parlando di gente diversa, mondi diversi, ere diverse. In queste situazioni bisogna essere bravi a distinguere ciò che “si sa” e la verità, perché gran parte dell’aura che circonda scarpe come le Dunk “Wu-Tang” deriva da strati di voci, leggende, racconti più o meno precisi accumulatisi in anni e anni in cui era impossibile sapere come fossero davvero andate le cose. Questo fa parte del gioco, in molti casi è proprio la narrativa a rendere belle e interessanti alcune uscite – ancora una volta mi preme ricordare come siano le persone a creare i classici, non le aziende.
Per molti anni ciò che si è saputo è che ad un certo punto tra il 1998 e il 1999 Nike realizzò una versione speciale della Dunk Hi “Iowa/Goldenrod” per i membri del Wu-Tang Clan, approfittando del colorblock che si prestava alla perfezione sistemata con un tag personalizzato sulla linguetta e una bella W sul tallone. Chi dice 20 paia, chi 40, chi molte di più, ma la tesi maggiormente accreditata è sempre stata “36 paia come le Camere, le 36 Chambers of Shaolin”.
La verità è un po’ diversa, certamente non meno poetica. A raccontare come dovrebbero essere realmente andate le cose è stato Drew Greer, ex EKIN ed executive di Nike a cavallo tra anni ’90 e ’00, intervistato qualche anno fa dal Complex Sneakers Podcast, oggi Complex Sneakers Show. Per semplificare una questione un po’ lunga Greer è il responsabile diretto di alcuni progetti speciali che hanno segnato un’epoca: dalle Air Force 1 “Roc-a-Fella” ad alcuni dei più bei PE realizzati per non atleti, fino alle già citate Dunk “Wu-Tang”.
Ai microfoni del podcast Greer racconta di un incontro negli uffici di Loud Records, etichetta che oltre al Wu al tempo aveva sotto contratto anche nomi del calibro di Big Pun, M.O.P., Mobb Deep e Pete Rock, per capire come queste realtà potessero contribuire al marketing del prodotto Nike in un momento in cui internet non era ancora esploso, non si poteva fare affidamento su uno storytelling dettagliato e Nike per prima opponeva resistenza allo sviluppo del dipartimento sportswear e all’espansione in contesti non sportivi. Durante l’incontro negli uffici di Loud Records alla proposta di realizzare una scarpa per il Wu-Tang, che per dare un’idea era reduce da un paio d’anni dall’uscita del suo secondo disco “Wu-Tang Forever”, Greer rispose che c’era già una Dunk che si adattava perfettamente allo scopo, ottenne dal team legal dell’etichetta il permesso di utilizzare il logo del gruppo e iniziò la produzione di cento paia di Dunk Hi personalizzate destinate ad uso promozionale, divise equamente tra l’executive Nike e l’etichetta.
Cento sono più di trentasei ma questo non cambia in alcun modo l’impatto culturale enorme che la scarpa ebbe da quel momento in poi. Durante l’intervista Greer lascia intendere come i membri del gruppo, alcuni sinceramente interessati alle sneakers come testimoniano alcuni video (tra cui questo di RZA che fa shopping che rimane per sempre uno dei miei preferiti), non avessero realmente inteso la rarità di quello special make-up anche perché, aggiungo io, l’arrivo un grande pubblico capace di reagire alla scarpa in maniera proporzionata era ancora molto lontano nel tempo.
Nonostante sia ormai divertente giocare ai nerd il fatto che in questi dieci giorni ancora una volta si parlasse di 20, 36, 40 o 50 paia dimostra come in realtà dei dettagli dietro le quinte non interessi realmente a nessuno: l’immaginario di una scarpa fatta solo ed esclusivamente per i membri del Wu in un numero significativo per molti motivi è ormai scolpito nella mente degli appassionati di sneakers e non ci sono testimonianze dirette che possano correggere la traiettoria presa dai racconti. Federico Buffa e Mark Twain ci hanno insegnato a non lasciare che la verità possa rovinare una bella storia, forse tocca ascoltarli.
Nel corso degli anni successivi le Dunk “Wu-Tang” hanno rapidamente acquisito lo status di splendido unicorno finendo tra gli obiettivi di tutti i principali collezionisti di rarità, PE, Promo Samples e così via, in un contesto dove i prezzi erano sì alti ma sempre controllati da un rigido concetto di “if you know, you know” – per apprezzare o anche soltanto capire come mai una certa scarpa comandasse un prezzo fuori scala, toccava prima di tutto sapere cosa fosse. Un’epoca mistica in cui ho consumato NikeTalk leggendo Greg Street, DJ/AM, Ben Baller. Quanti ricordi, signora mia.
Nel frattempo quelle operazioni commerciali un po’ spregiudicate di cui Greer era stato protagonista avevano dato i loro frutti ed erano ormai la normalità, pur non avendogli risparmiato qualche reprimenda e un po’ di sguardi torvi negli uffici di Nike.
Più o meno quindici anni dopo si è tornato a discutere di Dunk “Wu-Tang”, con l’avvicinarsi del 2013 e del ventesimo anniversario di “Enter the Wu-Tang” in molti iniziarono a domandarsi se Nike avrebbe realizzato una tanto attesa versione ufficiale della scarpa del 1999. L’assenza di un accordo commerciale tra Nike e Wu-Tang impedì una realizzazione puntuale della prima rétro, ma si continuò a parlarne anche negli anni successivi. Il momento buonò sembrò essere arrivato nel 2015 con la pubblicazione (lol) di “Once upon a time in Shaolin”, il disco del Wu stampato in singola copia finito in mezzo a enormi polemiche perché acquistato dallo speculatore farmaceutico Martin Shkreli (ma questa è un’altra storia e adesso sarebbe complicato parlarne). Anche in questo caso il mancato raggiungimento di un accordo economico tra le parti impedì la produzione delle Dunk “Wu-Tang”, ma presto iniziarono a circolare alcune paia di pre-produzione datate 2016 presto ribattezzate “Shaolin Monk”.
A questo punto servirebbe parlare almeno brevemente di una serie di controversie tra collezionisti che riassumerò in questo modo: le scarpe esistono ma è impossibile determinarne con certezza la legittimità, in quanto la produzione è stata gestita con canali diversi da quelli dei soliti sample e comporta alcune asperità legali riguardo l’utilizzo del logo del Wu-Tang da parte di Nike prima di un vero e proprio accordo. Alcune paia sono finite all’asta in questi ultimi anni ma la maggior parte dei grandi collezionisti hanno spesso cercato di prendere le dovute distanze da questa versione. Sarebbe molto bello poter approfondire ma ci sono così poche informazioni disponibili che è quasi inutile avventurarsi in speculazioni.

È a questo punto che inizia la vera fase di celebrità della Dunk “Wu-Tang”, con l’esplosione del trend Dunk e la costante ricerca da parte di molti di quanto fosse più raro, introvabile e costoso possibile. Questo improvviso interesse ha portato i prezzi delle ’99 a lievitare, da qualche migliaio di dollari fino ai 35/40 raggiunti dopo la pandemia. Nel frattempo continuava a circolare la storia delle 36 paia, portando molti a convincersi che il paio in taglia US 12 che per un po’ è circolato rimbalzando tra le varie case d’asta fosse quello personale di Method Man. Ovviamente circostanza mai confermata, per quanto plausibile anche prendendo in considerazione una produzione realisticamente più ampia.
Così torniamo al punto di partenza, ovvero il teaser pubblicato su Instagram il 30 giugno da Nike Sportswear e il Wu-Tang Clan. Nonostante il calo di popolarità di Dunk la notizia è stata accolta con grande entusiasmo da molti, soprattutto da chi c’era già nei primi anni ’00 e vede finalmente concretizzarsi qualche possibilità in più di acquistare una scarpa da sempre considerata fuori portata per motivi di prezzo e tiratura.
Ovviamente non mancano i dubbi e qualche problema di fondo ben sintetizzati dalle opinioni di chi non ha reagito bene all’annuncio, che potrebbero essere divise in due categorie: “non c’è più nulla di sacro” e “Nike ha finito le idee”. Entrambe opinioni legittime, devo ammetterlo.
Nella caption per l’episodio 21½ di Scarpe.pod ho ridotto a tre domande l’ordine del giorno e vorrei provare ad utilizzare lo stesso sistema per raccogliere meglio le mie opinioni da qui in poi e provare ad approfondire un po’ quanto detto in puntata.
Quindi, il mondo delle sneakers ha un problema di nostalgia? Fin dove ci si può spingere con le rétro? Ma noi, alla fine, questa roba la compriamo o no?
Il mondo delle sneakers ha un problema di nostalgia?
Più che un problema “di nostalgia” penso che al momento la maggior parte dei brand, di conseguenza il mondo delle sneakers, non sappia bene come usare la nostalgia per comunicare o creare interesse nel prodotto.
Nell’articolo che ho pubblicato l’anno scorso su Outpump e ri-pubblicato qui su NNT nello scorso post parlavo di come il mercato saturo di rétro abbia disabituato il pubblico alle novità e precluso molte opportunità alle nuove generazioni di designer. La Dunk “Wu-Tang” è il pretesto perfetto per affrontare un altro lato del problema, ovvero la confusione con cui le aziende provano a far leva sui ricordi e sulla nostalgia per vendere. Il leggendario ego di Nike ha portato l’azienda negli ultimi anni a muoversi nel mercato dando per scontato che tutti sappiano di cosa si sta parlando, qual è l’argomento della conversazione.
Questo comportamento ha avuto conseguenze enormi sullo sviluppo delle nuove generazioni di pubblico, che si sono approcciate per anni in modo superficiale al mondo delle Sneakers per disinteresse nei confronti della cultura ma anche per l’assenza di fonti, contesto, storytelling e argomenti, problema enorme spinto sotto al tappeto insieme alla polvere dagli enormi dati di vendita, che secondo qualcuno dimostravano chiaramente che tutti gli sforzi necessari per educare la clientela non fossero necessari per fare cassetto. Ora che le mode non spingono il pubblico più giovane a comprare tutto, velocemente e alla cieca ci troviamo con una clientela spesso disinteressata, o in alcuni casi anche interessata ma incapace di reperire le informazioni che potrebbero accendere la curiosità.

Nel frattempo Nike, per boria o pigrizia, continua a raccontare poco e male la sua storia, finendo di conseguenza per comunicare con chi davvero sa già le cose, c’era o ha avuto la voglia di imparare per conto proprio. A questo punto la domanda reale sarebbe “Nike a chi vuole davvero vendere queste scarpe?”, perché se l’obiettivo è ingraziarsi i vecchi trascurati in un decennio di scarpe da rapper bisognerebbe per coerenza calibrare quantità e tirature di conseguenza, fare le cose per bene e non fare i capricci se poi la roba va in saldo.
Se invece la speranza è continuare a vendere ai ventenni è probabile il prodotto scelto sia sbagliato, o serva un grande sforzo per dar loro buone ragioni per buttare dei soldi. La nostalgia funziona con chi sa di cosa si sta parlando, con chi ha il termine di paragone, con chi comprando la scarpa si porta a casa anche altro: la soddisfazione di un acquisto insperato, un obiettivo raggiunto, la memoria di un momento passato. Suonerà poetico e un po’ melenso, ma è così.
Sarebbe anche bello, rétro a parte, vedere nuove realtà e nuovi store ricevere l’opportunità di creare i prossimi classici. Se non si crea un minimo di legame sentimentale tra le nuove generazioni e il prodotto c’è l’alto rischio che ci ritroveremo qui nel 2049, sempre tra noi quattro, a discutere della Dunk “Wu-Tang” del cinquantesimo anniversario.
Nike farebbe meglio a rendersi conto in fretta che se non vuole cambiare modo di comunicare il pubblico che ha a disposizione è una frazione minima di quello che polverizzava Dunk e Jordan 1 soltanto qualche anno fa e ciò che rimane è destinato a ridursi progressivamente, per di più in uno dei peggiori momenti di difficoltà del mercato.
Senza una bella cornice dorata anche i grandi capolavori accumulati in anni di sforzi finiscono per sembrare un po’ inutili. Lo dimostrano le “Linen” vendute a rilento, le Air Max 1 “HUF” destinate a finire in saldo, le Dunk dell’“Ugly Duckling” pack che fanno polvere in negozio alla seconda retro in 5 anni.
In un tweet Matthew Welty ha paragonato la riedizione di scarpe come le Dunk “Wu Tang” a un membro della famiglia che si riduce a dover vendere o impegnare qualcosa con grande valore affettivo.
Mentre l’interpretazione di molti si riduce a “non c’è più nulla di sacro”, argomento che si lega meglio alla prossima domanda, penso che il paragone possa essere più utile al tema “Nike ha finito le idee”.
È indubbio sia un peccato vedere scarpe leggendarie, spesso legate a un grande valore economico, finire in saldo o al piede di qualcuno che chiaramente non ne comprende il valore. È successo un’infinità di volte e continuerà a succedere, con colorway originali, collaborazioni degli albori come le Air Max 90 “DQM” e le Max 1 “Kiss of Death” di Clot o rarità assolute come le Air Jordan 4 “Motorsport”. Sono sinceramente convinto che tutto si riduca al problema discusso prima, ovvero la mancanza di narrazione e contesto.
Banalmente spiegare perché una cosa è più importante di un’altra. Con i giusti strumenti a disposizione le persone sono anche disposte ad ascoltare e capire, l’esempio perfetto che racconta come le cose possano essere fatte in maniera diversa è la prima riedizione della Air Force 1 “Linen” curata da KITH, o per citare una gestione completamente diversa il quasi contemporaneo ritorno sugli scaffali dell’Air Max 1 “Elephant” di Atmos. Anche in un contesto di superficialità senza precedenti il contenitore, la tiratura e il racconto hanno spiegato anche a chi non aveva idea cos’avesse davanti perché valeva la pena fare uno sforzo in più o spendere cifre orrende per avere una scarpa.
Se invece Nike stesse usando pezzi come le Dunk “Wu Tang” solo per attirare qualche sguardo in più e far litigare la gente sui social sarebbe certamente triste, ma sarei pronto a fare un bel respiro e rispondere con un bel “sticazzi?” mentre continuo a comprarmi quello che mi piace.
Fin dove ci si può spingere con le rétro?
Su questo punto devo ammettere che la mia opinione è cambiata molto nel corso del tempo. Quando ero più piccolo ero convinto che ci fossero una serie di cose intoccabili, non impossibili da riproporre ma una cui eventuale riedizione era sbagliata. Probabilmente lo facevo per darmi un tono, non che avessi particolari ragioni o i gradi per parlare così di roba spesso uscita prima che mi fossi anche solo interessato alle sneakers. Con un po’ di lucidità e di egoismo in più al momento cerco di concentrarmi su ciò che mi piace e vorrei potermi mettere – questo non significa però che abbia smesso di incazzarmi per le cose fatte male o sbagliate, quello non succederà.

Parlando di collaborazioni e SMU penso che l’unico vero limite alla riedizione di una scarpa sia legato al pubblico, alla situazione, al messaggio e alle persone coinvolte nel progetto originale. Tanti progetti sviluppati nella prima metà degli anni ’00 sono figli di rapporti tra artisti, negozi e persone che non hanno più alcun legame con il mondo delle sneakers ed è giusto che questo elemento sia tenuto in considerazione. La stessa cosa vale per i PE di certi atleti, valutando per esempio il rapporto attuale con i marchi.
Si discute già delle Air Jordan 4 x UNDFTD per il 2025 (che comunque non sarebbe la prima riedizione, checché ne dica chi si duole) e di un ritorno di “The 10” nel 2027, a dieci anni dall’uscita originale. Non vedo problemi in entrambi i casi, resta solo da vedere come viene gestita l’uscita e come sono fatte le scarpe.
Non riesco proprio a prendere in considerazione il valore economico come ha fatto, per esempio, Rhys McKee aka Cakenotcrumbs, che ha lasciato intendere come per lui riproporre pezzi molti rari e/o costosi fosse una mancanza di rispetto nei confronti di chi ha fatto sforzi o grandi investimenti per acquistare gli originali. Qui, semplicemente, mi permetto di sottolineare il significato di “originale” e “rétro” nel mondo delle sneakers: come in tutti i contesti di collezionismo esistono le riedizioni e le ristampe, sta a chi acquista essere capace di distinguere gli uni dagli altri, paradossalmente una riedizione aumenta il valore di un originale quindi non capisco proprio quale possa essere il problema, se non che chi ha acquistato per vanità o per sentirsi unico ha perso questa rara occasione. In questi casi a certa gente riderei in faccia e consiglierei di spendere meglio i propri soldi.

Tutto questo senza prendere in considerazione la possibilità di indossare nuovamente scarpe troppo vecchie o il deperimento dei materiali. Oggi una persona che dubito mi leggerà anche qui mi ha scritto su Instagram a riguardo facendo l’esempio di chi colleziona orologi e conoscendo materiali ed effetti del tempo non metterebbe mai alla prova l’impermeabilità di un diver vintage, capendo anche i contesti e i momenti in cui utilizzarlo. Una Dunk “Wu-Tang” 2024 non sarà mai una 1999 e non toglierà mai ad un collezionista la soddisfazione di possederla o lo stimolo per continuare a cercarla.
Faccio un esempio concreto per concludere, così possiamo passare al prossimo punto: una delle mie scarpe preferite di sempre è l’Air Force 1 Low I/O “Harbor Blue” di Stash, ne ho tre paia e la considero una delle 3 o 4 AF-1 più belle di tutti i tempi. Se (come sembra) dovesse arrivare una rétro me la comprerei al volo, probabilmente anche doppia. Prima di tutto per poter tornare a mettere tutti i giorni una scarpa che amo, poi per non preoccuparmi che mi possa scoppiare anche il terzo paio. Non guarderò indietro pensando di aver sprecato tempo e soldi per la ricerca, non mi sentirò tradito dal brand che ora mi mette alla pari di eserciti di parvenu, non mi farà istantaneamente dimenticare la soddisfazione del primo acquisto o l’emozione del paio autografato.
Il discorso si applica identico anche alle scarpe che non ho. La “Wu-Tang” è un caso limite, l’originale non potrei permettermelo in ogni caso, ma se non fossi scemo non avrei continuato a cercare vecchie Footscape per completare i set originali pur avendo le rétro più recenti da mettermi tutti i giorni senza patemi.
Questo è ovviamente un parere personale, liberi tutti gli altri di sentirsi offesi, sono convinto che un’azienda dovrebbe tener conto delle emozioni del suo pubblico ma anche che il pubblico a un certo punto dovrebbe crescere e smettere di pensare che qualcuno gli abbia rotto il giochino, soprattutto a cinquant’anni.
Ma noi, alla fine, questa roba la compriamo o no?
A questa ho involontariamente risposto in anticipo. Se mi piace, sì. È successo con le varie AF-1 Co.JP o mid 90s, con le ZX8000 “Germany” e le 9000 “Citrus”, con le New Balance 576 di FootPatrol con il velcro e le Asics GEL Lyte III “Sold Out” di Colette e LaMJC. A tutto questo aggiungo i quintali di colorway orginiali che mi sono goduto negli anni e pure quelle che come un salame ho lasciato sugli scaffali facendo l’integralista per tutti i motivi sbagliati.
Tra l’altro ragionavo ieri sul fatto che se la questione è il valore o la rarità non ricordo tanti indignati per le Dunk Hi di UNDFTD nel 2012, per fare un esempio. Forse perché era l’inizio e tanti adesso sono semplicemente stufi, ma sono convinto che qualcuno fosse anche genuinamente felice di potersele comprare in negozio senza farsi le nottate su eBay a regalare stipendi a Depeche23Mode, CroatianStyle, CorgiShoe o GustodaNinja.

Come dicevo ormai troppi paragrafi fa, questo non significa accettare qualunque spazzatura venga proposta o riedizione indegna – proprio perché si parla di bei ricordi e di pezzi di storia delle aziende ogni cosa merita la giusta cura. Beato chi si è accontentato delle Max 1 “Safari” con il pelo, a me non è ancora passata.
Dopo aver pubblicato l’episodio di Scarpe.pod ho ricevuto un bel messaggio del mio amico e maestro ALberto Prola, che simpaticamente mi diceva che (aggiungo io, se davvero non c’è più nulla di sacro) non vede l’ora di una retro delle Air Max 1 “Albert Heijn”, conscio non saranno mai quelle originali, di Woei o Piet Parra sul cornicione.
Ho la sensazione ormai sia tardi per lamentarsi di certe dinamiche, tanto vale andare con la corrente e provare a godersi questa cosa delle scarpe da ginnastica finché dura.