Dopo lunghi mesi di rotture di palle (e procrastinazione, tocca ammetterlo) settimana scorsa sono riuscito ad andare a vedere “Nike: form follows motion”, la mostra allestita dal Vitra Design Museum per ripercorrere un po’ di storia di Nike tra sport, tecnologie, sottoculture e tutto il resto. Il tutto all’ultimo momento utile, dato che era visitabile fino allo scorso week-end.
La mostra è rimasta aperta per otto mesi più o meno, a partire dal 21 settembre. Fin dalla presentazione della scorsa estate ho iniziato a covare grande curiosità; stando al comunicato rilasciato per annunciarne l’apertura Nike e Vitra hanno ripetutamente sottolineato come fosse la prima volta in cui alcuni degli articoli conservati nel DNA, il Department of Nike Archive di Beaverton, lasciavano l’Oregon per essere esposti al pubblico.
Per spiegare un po’ meglio la portata di questa cosa, agevolo un piccolo aneddoto. Sette anni fa il mio ex capo mi commissionò la bozza di una mostra che raccontasse l’evoluzione delle scarpe sportive, in particolare quelle da corsa, concentrandomi però sulle suole e le tecnologie di cushioning, mostrando il tutto da sotto. Idea intrigante ma molto complicata per tutta una serie di motivi (allestimento, reperibilità, fragilità del materiale esposto, sicurezza e così via. Non ci ho dormito la notte), però valeva la pena provarci dato che l’idea era di utilizzare questa mostra come primo evento ufficiale del fu Special Sneaker Club. Insomma, metto giù una lista di ciò che mi piacerebbe esporre, di cosa ho già la disponibilità e chi potrebbe aiutarmi a trovare tutto il resto.
Lo step successivo fu una serie di mail e telefonate direttamente con le aziende, non si sa mai che oltre a qualche favore saremmo riusciti anche a strappare un mezzo patrocinio. Arrivato il turno di Nike mi metto in contatto con questa figura mistica di cui non farò il nome, che ascolta con attenzione le mie esigenze e accetta di fare da tramite, pur premettendo che sarebbe stato complicato se non impossibile. Da lì parte un loop mail con il DNA, presento la mia idea e chiedo accesso a 4/5 modelli. Nulla di impossibile o segreto, semplicemente cose più facili da reperire tramite l’archivio.
Nel giro di qualche ora mi rispondono tranciando metà della breve lista che avevo mandato e dicendomi che per i modelli rimanenti il processo da seguire fosse questo: copertura totale delle spese di viaggio per uno o due addetti del DNA - unici autorizzati a trasportare e maneggiare gli articoli conservati in archivio - vitto e alloggio per la durata dell’esposizione, specifiche dei sistemi di sorveglianza e controllo della temperatura nel luogo scelto per l’allestimento. In sostanza una di quelle scene da film di spionaggio in cui c’è il povero cristo con la preziosa valigetta ammanettata al polso, nulla di strano in situazioni come queste. Poi la situazione si arenò per altri motivi, però fu divertente dover fare tutti questi salti nel cerchio di fuoco soltanto per chiedere delle informazioni.
Quindi, torniamo a noi. DNA, archivio, cose belle e un’occasione rara per vederle. Lunedì mattina sono uscito di casa e dopo due treni e un tram sono arrivato a Weil-am-Rhein, luogo ameno ma abbastanza deserto incastrato sul triplo confine tra Svizzera, Francia e Germania, nel punto in cui il Reno decide di svoltare a destra per tagliare in due l’Europa. Qui ci sono il Campus di Vitra e il Vitra Design Museum, una sorta di parco pieno di panchine molto costose.
Da settembre in poi tanti amici erano già stati alla mostra, quindi mi ero già fatto un’idea partendo da ciò che avevano pubblicato sui social. Negli anni il mio lavoro mi ha dato modo di vedere tante scarpe, molte delle quali nemmeno sapevo esistessero finché non le ho tenute in mano, quindi avevo un po’ paura di farmi 350 km per poi rimanere non deluso ma un po’ indifferente. Per fortuna mi sbagliavo.
La mostra è piccola, in alcuni punti anche un po’ scomoda, ma così piena di pezzi incredibili da far dimenticare qualunque cosa. Le cose più interessanti, almeno per me, sono stati tutti i pezzi anni ’70 e ovviamente i prototipi. Non un caso siano le due categorie di prodotto più difficili da trovare e vedere.
Ho apprezzato molto la selezione fatta per raccontare il primo decennio di Nike: tanto running, tanto abbigliamento realizzato prima che Nike esistesse formalmente, un paio di Asics modificate da Knight e Bowerman e alcune delle folli creazioni del Coach per i suoi atleti. Per una volta il racconto mi è sembrato obiettivo e abbastanza completo, lontano dalle agiografie piene di toppe a cui Nike ci ha abituato negli anni. Purtroppo la struttura delle teche e l’illuminazione non aiutavano a vedere tutto per bene, quindi è toccato fare di necessità virtù sapendo che probabilmente non mi ricapiterà di avere davanti certe cose.
La seconda parte della mostra è stata dedicata agli anni ’80 e ’90, quindi tante Air Jordan* e un po’ di teche con maggiori dettagli riguardo i vari sport in cui Nike è ancora oggi impegnata: ovviamente il running* tanto basket e tennis, un po di outdoor* e calcio.

*A questo punto mi permetto una piccola critica: come può Nike organizzare una mostra del genere e poi infilare delle riedizioni – nemmeno tutte giuste – in mezzo a così tante rarità? Nel segmento dedicato alla nascita della tecnologia Air c’erano un prototipo originale della Tailwind, varie bolle, un’Air Max 1 blu del 1987 e una “Big Bubble” del 2023. Una splendida carrellata di Air Jordan: due tute del 1985, tante prime edizioni e qualche rétro abbastanza fedele, poi una Jordan 7 “Infrared” del 2023. Una teca interamente dedicata agli inizi di Nike ACG (una mia grande passione, ne ho scritto anche qui) con un prototipo senza senso che pare un incrocio tra una Mowabb e una Flight Huarache vicino a una Lava Dome del 2003. Capisco perfettamente determinate necessità, ma volete dirmi che Nike non ha a disposizione una Lava Dome originale o un’Air Jordan 7 del 1992? O anche soltanto un modo per reperirle, potrei fare l’elenco di chi le ha in Europa, senza nemmeno bisogno di spedirle. Molto probabilmente ci sono ragioni di cui non sono a conoscenza, ma sono questi piccoli dettagli che lasciano il sapore di qualche scelta un po’ pigra.
Come accennavo prima la semplice quantità di figate racchiuse in pochi metri mi ha fatto dimenticare qualunque possibile difetto. Non pensavo avrei mai visto dal vivo i test di fabbricazione della tomaia di una Air Foamposite (anche di questo ho già parlato qui), il secondo prototipo di un’Air Force One o uno degli stivali realizzati per Serena Williams.
Le ultime teche erano dedicate ai prodotti più recenti: un po’ di Vaporfly, qualche modello Flyease e una serie di sudi e prototipi legati a tre progetti legati tra loro, ovvero Free, Flywire e Flyknit. Alcuni di questi li avevo già visti a Milano, ad una mostra intitolata “The Art & Science of Natural Motion” allestita all’interno del vecchio Nike Stadium durante la Design Week 2013, per accompagnare la release della Lunar Flyknit Trainer 1+ “Milano” (ovvero una delle scarpe più belle di tutti i tempi e non accetto tesi contrarie). Tra i prototipi esposti c’era anche una scarpa con suola Lunar e tomaia Flyknit senza lacci, gialla con scritte nere. Alcune foto di quella mostra furono pubblicate da SneakerNews in un articolo a cura di un Brendan Dunne (qui invece altre foto del buon Stefano Carloni) che probabilmente aveva già i baffi e finirono poi nel gruppo Facebook di CrepeCity. Lì commentai che ero appena stato alla mostra e iniziai a chiacchierare con un po’ di inglesi delusi per il fatto che per la stessa release organizzata da 1948 a Londra non si erano beccati un bel niente. Lì mi ritrovai a parlare di questo prototipo pazzo con Gary Warnett, gli inviai in privato un po’ di foto che avevo scattato e iniziamo a discutere di come sembrasse una versione trent’anni più giovane della Sock Racer di Bruce Kilgore scherzando sul claim di una delle pubblicità: “still crazy after all these years”, splendida descrizione per quella scarpa rubata dal titolo di uno degli album solisti di Paul Simon.
Non era la prima volta in cui scambiavo qualche battuta con Gary Warnett, ci eravamo anche brevemente incontrati a Londra l’anno prima, però quello scambio mi diede per la prima volta la sensazione (tutta mia, voglio sottolinearlo) di aver discusso da pari con una persona di cui avevo un’enorme considerazione. Al piano di sopra, nelle anonime colonnine in cui Nike ha infilato alcune delle sue scarpe più belle (quante possibilità avevo nella vita di vedere una delle Elite realizzate per Elton John? Fino alla scorsa settimana avrei detto zero.), c’era anche l’Air Span 2 che i suoi amici gli hanno dedicato nel 2018, per festeggiare quello che sarebbe stato il suo quarantesimo compleanno. Anche di alcune di queste cose ho già parlato qui, il favore del link non è per voi ma per me. Mi evita di finire ancora una volta a spiegare certi perché e certi per come.
Alla fine posso dire che n’è valsa la pena, sono stato un po’ un salame a ridurmi così all’ultimo per andare e sono sicuro che me ne sarei pentito se non fossi passato prima della chiusura. La sensazione è quella di aver visto soltanto la punta dell’iceberg e per ogni cosa che osservavo il pensiero andava alle dieci, cento, mille ancora chiuse negli armadi del DNA a Beaverton. Anche in questo post ho parlato di un sacco di cose e me ne sono dimenticate altrettante, questo da un buon riscontro della mole di materiale esposto e di quante altre scarpe avrebbero potuto portare in Svizzera (praticamente apposta per me, non avrei certo opposto resistenza). Può sembrare un po’ agrodolce ma non c’è stimolo migliore per continuare a cercare e studiare. Magari la prossima volta vi racconterò com’è andata a Portland, chi lo sa.